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Pierre Jean Jouve

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Massimo Cotugno

2010 

Pierre Jean Jouve, Teresa d'Avila e Giovanni della Croce:


Influenze, richiami, prestiti


L’influenza dei testi mistici sull’opera di Jouve è ben nota. Raramente, però, ci si è soffermati ad analizzare la fitta trama di rapporti intertestuali, dai prestiti alle influenze, nella sua struttura e composizione. Quest’indagine, se condotta, permette di meglio illuminare la complessità e la ricchezza del modus narrandi di Jouve, chiarendo se il debito nei confronti dei mistici sia solo di natura tematica o anche stilistico-retorica.

Ricercare nel testo del capolavoro jouviano, Paulina 1880, le tracce e i sedimenti dell’insegnamento mistico, in particolare quello lasciato da Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, può rappresentare un’operazione valida al fine di dare una risposta al nostro quesito.

Trattandosi di Paulina 1880, l’indagine non può che ruotare attorno alla figura della protagonista, la Paulina che dà il titolo all’opera, vero e proprio alterego romanzesco di Pierre Jean Jouve, in cui l’autore riversa le proprie ansie e tensioni metafisiche. L’epigrafe che apre il romanzo, estratto dalle Esclamaciones di Teresa d’Avila, fondatrice dell’ordine delle carmelitane scalze, preannuncia la presenza della santa nel tessuto dell’opera e anticipa uno dei temi principali del romanzo, l’eros e la sua tensione ultraterrena:


L’amour est dur et inflexible comme l’enfer (O, p.3)


Il verso teresiano riassume in sé, infatti, la tematica dell’unione amorosa con Dio, e del durissimo cammino per raggiungere tale stato, tra prove estenuanti e sofferenze inaudite, sia spirituali sia fisiche.

D’altra parte, osservando l’impianto generale del romanzo, si scorge, celata nel tessuto romanzesco, una struttura più profonda: quella di un cammino rituale, un percorso che prevede la comprensione delle proprie colpe, il distacco da tutti i legami terreni e il raggiungimento di quella condizione spirituale già descritta da Giovanni della Croce in componimenti quali la Noce Oscura o la Subida del Monte Carmelo e che consiste nell’annientamento di sé per accogliere il divino: il Nada.

Jouve sceglie un modello di santità mistica su cui ricalcare le gesta della sua eroina e creare una sorta di “scandalosa” agiografia; la vita di Teresa d’Avila offre allo scrittore gli elementi di cui aveva bisogno; uno degli aspetti, infatti, delle opere scritte dalla santa carmelitana che devono aver attratto Jouve è l’aver delineato la figura di una peccatrice redenta, di una donna che segue tardivamente la via del Signore, dopo essersi, in un primo momento, abbandonata ai piaceri mondani. La consapevolezza del peccato e la lucida analisi della propria colpa sono condizioni imprescindibili per porsi di fronte al divino, concezione, questa, vicina, secondo Béatrice Bonhomme, all’insegnamento di Kierkegaard (B. Bonhomme, Pierre Jean Jouve la quête intérieure, pp. 402-403).

L’analogia più evidente tra Paulina e Teresa consiste nell’essere entrambe severe giudici di sé stesse; entrambe si considerano grandi peccatrici e lo ribadiscono continuamente, accusandosi persino di colpe inesistenti. È in particolare nel testo del Libro de mi vida, sorta di autobiografia teresiana, che troviamo con insistenza il tema del peccato, come già osservato dalla Bonhomme:


Tout le texte est jalonné de termes comme “vie coupable, souillure, péché”. Péchés, d’après le père Tomas Alvarez [il confessore di Teresa] bien plus imaginaires que réels (B. p. 281)


Paulina, del resto, sembra possedere, fin dall’infanzia, una visione estremamente personale dell’esistenza e della colpa ad essa inevitabilmente connaturata. Il narratore, infatti, ci informa che “elle avait naturellement la notion du péché, et vivre même lui semblait inséparable d’une certaine faute obscure et capitale (O, p. 19)”. La protagonista stessa si autodefinisce « pécheresse (O, p. 33) » e si considera « impure, méchante, perverse (O, p. 49)» facendo della colpa una costante della sua vita.

Più ci si inoltra nella narrazione, più affiorano le analogie tra le due figure femminili; entrambe vissute all’ombra di un padre amorevole, ma anche severo e iperprotettivo, esse cercano una via di fuga da un mondo asfittico, sviluppando una fervida immaginazione in grado di compensare la mancanza di una vera cultura, appannaggio questa ancora esclusivamente dei maschi. Per quanto riguarda Teresa, siamo di fronte a un vero e proprio complesso da illetterata che la santa spagnola sottolinea più volte nei suoi testi, come nel capitolo X della sua autobiografia: «Bastan personas tan letradas y graves para autorizar alguna cosa buena, si el Señor me diere gracia para decirla; que, si lo fuere, será suya y no mia, por ser yo sin letras y buena vida, ni ser informada de letrado ni de persona ninguna (T, pp. 52-53)».

Allo stesso modo, osserviamo come il narratore in Paulina 1880 sottolinei l’estraneità della protagonista al campo delle arti proprio in un passo in cui si descrive la passione della fanciulla per le immagini raffiguranti i martiiri:


A San Maurizio, il y avait le martyre de sainte Catherine et celui de saint Maurice, mais dans mainte autre petite église cachée parmi les quartiers populeux, ce n’étaient que bruit de sanglots, égouttement de sang, agonie, et béatitude enfin sur le visage du Saint. Paulina ne savait pas ce qu’était la peinture et elle ne lisait jamais de poésie (P. p.29)


Ad alimentare le fantasie delle due donne sono produzioni artistiche con cui vengono casualmente a contatto senza l’ausilio di alcuna figura mediatrice che possa loro interpretarle e indicarne il valore; Teresa e Paulina sono costrette, dunque, ad affidarsi esclusivamente alla loro sensibilità e intelligenza, doti che entrambe sembrano possedere in gran quantità. Se nel caso di Paulina le opere in questione riguardano soprattutto l’arte figurativa tardo-rinascimentale di cui sono ricche le chiese milanesi, per Teresa si tratta, invece, di opere letterarie come il flos sanctorum, libro di leggende e gesta eroiche che evocano i tormenti di numerosi santi. In entrambi i casi si tratta, comunque, di storie di martiri e il contatto con queste narrazioni avviene già nella prima adolescenza, un periodo che sia per Teresa sia per Paulina rappresenta un momento di grandi mutamenti spirituali. Il conflitto con la figura paterna (aggravato da una sfumatura incestuosa), che resta latente nella storia di Paulina – « cet homme gras et blême était son père. Elle ressentait de l’effroi et du désir. Mais oui, et elle l’aimait. Non, elle ne l’aimait pas. Elle méfiait. Se méfier de toi, papa, mais cela est impossible et de plus, c’est criminel ! (P, p. 52.)» è scontro diretto in Teresa, manifesto quando sceglie di abbracciare la vita monacale, sfidando le ire di don Alonso.

Ciò che più accomuna la santa e la fanciulla milanese è, però, il tragico dilemma tra mondo e Dio, vita e annientamento di sé. Non è un caso che, tra i peccati, quello ad essere messo in luce sia per entrambe la vanità; nel secondo capitolo della sua autobiografia, Teresa d’Avila descrive i propri errori di gioventù, peccati veniali che assumono, agli occhi dell’autrice, una gravità pressoché mortale. Tra questi la cura eccessiva del corpo al fine di apparire bella agli occhi di chi l’ammirasse, occupa un posto rilevante:


Comencé á traer galas, y á desear contentar en parecer bien, con mucho cuidado de manos y cabellos y olores, y todas las vanidades que en esto podía tener, que eran hartas, por ser muy curiosa [...] Duróme mucha curiosidad de limpieza demasiada, y cosas que me parecía á mí no eran ningún pecado muchos años; ahora veo cuán malo debía ser (T, p. 11)


La stessa vanità si riscontra nella giovane Paulina a un’ora dall’inizio del ballo dei Lanciani, dove la fanciulla farà il suo ingresso ufficiale in società. La protagonista, in procinto di passare definitivamente all’età adulta, è sempre più consapevole della sua bellezza e del fascino che esercita su chi le sta attorno. Combattuta fra castità e desiderio di esperire le gioie e i piaceri del mondo, Paulina si ammira di fronte allo specchio, elogiando la propria figura, quasi fosse di fronte a un potente idolo da venerare:


Je suis belle. Je suis adorable. Je suis adorée adorable. Je t’adore. O mon amie tu es une parfaite beauté. Je voudrais t’avoir ! Si tu étais réelle. Je voudrais baiser ton âme […] Ce n’est pas bien. Mon Père, les douteux désirs. Voilà trois jours que cela me prend quand je me vois dans le miroir […] J’ai peur d’être trop belle. Couvre ta poitrine. (P, p. 37-39.)


Sia in Paulina sia in Teresa è in atto un conflitto interiore generato da istanze di natura opposta, quella fisico-sensuale e quella spirituale; entrambe le donne tentano di trovare un misterioso legame che possa tenere unite le due realtà apparentemente inconciliabili. Leggiamo così, nel Libro de la vida, un’alquanto originale confessione della santa sui suoi anni di gioventù:


Pasaba una vida trabajosísima, porque en la oración entendía más mis faltas. Por una parte me llamaba Dios, por otra yo seguía el mundo. Dábame gran contento todas las cosas de Dios; teníanme atada las del mundo. Parece que quería concertar estos dos contrarios, tan enemigo uno de otro, como es vida espiritual, y contentos, y gustos y pasatiempos sensuales (T, p. 47).


Evidente ed estremamente significativa è la somiglianza con quanto il narratore afferma al paragrafo 38, là dove ricorda che Paulina : «voulait ardemment revenir à Dieu ; mais elle ne pouvait rien renoncer de sa passion qui la possédait avec une égale ardeur (P, p. 92)» ancor più quando ricorda: « La vie [...] double et partagée. Il y avait son sensuel amour et il y avait Dieu. Elle ne voulait rien renoncer, ni de l’un ni de l’autre (P, p. 114)».

Attanagliate da dubbi e desiderose di una guida spirituale in grado di correggere gli slanci di una fede bruciante, istintiva e “pericolosa”, Paulina e Teresa si affidano a figure quali i confessori per sciogliere i continui dubbi sulla correttezza delle loro azioni e sulla giusta via da intraprendere. Questa particolare figura è, d’altronde, l’unico vero “intruso” che le due donne tollerano nell’intimo dialogo tra loro e Dio. Per questo motivo, esse instaurano un legame profondo con i rispettivi confessori, descritti come personaggi enigmatici, capaci essi solamente di sondare le loro anime, grazie a un carisma che al tempo stesso affascina e inquieta le due donne:


Au père Bubbo je l’ai dit: pourquoi ne serais-je pas un Ange ? Sans corps, sans douleurs, sans désirs, à force d’exercer et d’endurcir mon esprit ? Il a souri. Il est si bon. Non, c’est un vieux sorcier. (P, p. 33)

Tenía yo un confesor que me mortificaba mucho, y algunas veces me afligía y daba gran trabajo, porque me inquietaba mucho, y era el que más me aprovechó, á lo que me parece: y aunque le tenía mucho amor, tenía algunas tentaciones por dejarle, y parecíame me estorbaban aquellas penas que me daba, de la oración. Cada vez que estaba determinada á esto, entendía luego que no lo hiciese, y una reprensión, que me deshacía más que cuanto el confesor hacía: algunas veces me fatigaba, cuestión pou un cabo y reprensión por otro; y tobo lo había menester, según tenía poco doblada la voluntad. Díjome una vez que no era obedecer, si no estaba determinada á padecer; que pusiese los ojos en lo que él había padecido, y todo se me haría fácil. (T, p. 163)


Ma la “parentela” tra il personaggio jouviano e la mistica spagnola va ben oltre la biografia e la caratterizzazione del personaggio ispirate dalla figura di Teresa d’Avila; il legame è ben più profondo e tocca persino il linguaggio della protagonista, quel suo modo inedito di pregare e lodare Dio che ci riconduce, questa volta, agli infiammati versi di Giovanni della Croce. È nel capitolo intitolato “Visitation” che Jouve decide di mettere in bocca al suo personaggio principale un linguaggio altamente metaforico e visionario in grado di descrivere l’esperienza che, per sua natura, è indicibile: l’esperienza mistica. Il termine latino “mysticus”, derivato dal greco “μυστικός”, significa, infatti, “misterioso”, “arcano”; entrambe le parole hanno come origine il verbo greco “mυειν” ovvero “chiudere”, “tacere”.

La difficoltà di tradurre in concetti razionali l’esperienza mistica è dovuta alla natura dell’oggetto stesso del discorso: come esprimere con parole finite un’esperienza infinita? Il linguaggio umano, al cospetto del divino, perde qualunque efficacia.


Se dunque Dio non può essere descritto attraverso i consueti schemi linguistici, la parola verrà deformata, rigenerata, portata all’estremo delle sue possibilità, ottenendo inedite “alchimie” capaci di alludere al divino; è questa la strada intrapresa da Giovanni della Croce, il mistico che forse ha più influenzato la scrittura jouviana sia dal punto di vista tematico sia da quello stilistico.

Benché Jouve abbia affrontato diverse traduzioni da testi mistici, come la poesia di Santa Teresa tradotta nel ’39 (Je meurs de ne pas mourir (O, p. 2045) o il Cantico delle creature (O, p. 1885) apparso per la prima volta in chiusura della raccolta di poesie Les Noces nel 1926, di fronte al testo del carmelitano scalzo dichiara l’impossibilità di una traduzione:« Un peu plus tard je m’approchai avec respect de Jean de la Croix, qui ne se peut traduire (M, p. 32)».

Restituire, infatti, la musicalità e l’intensità del verso spagnolo di un’opera come il Cantico Espiritual o La Noche Oscura in una qualsiasi altra lingua risulta essere un’impresa ardua se non impossibile per qualunque traduttore. Più che il castigliano, è lo “sguardo mistico” di Giovanni della Croce a creare una nuova lingua, un Verbo delle origini, che recupera la funzione performativa del canto liturgico, obbiettivo che si propone di raggiungere lo stesso Jouve con la sua poesia, concepita nella sua accezione più antica:


Poésie, art de «faire». Selon cette définition qui remonte à la science des Anciens, la Poésie tient sous son influence, par rayons droits ou obliques, tous les autres arts de l’homme. Faire veut dire : enfanter, donner l’être, produire ce qui, antérieurement à l’acte, n’était pas (O, p. 1055).


Il mistico si getta contro i limiti del linguaggio e, se da un lato ritiene qualunque traduzione in parole della propria esperienza intraducibile, dall’altra attinge a tutto ciò che può aiutarlo a tradurla. Interpretare il divino è possibile solo a patto di esprimerlo con parole, ma il linguaggio corrente è debole e allora occorre attingere a tutte le lingue e a tutte le tradizioni che rigenerino quelle parole, diano loro un conio nuovo.

Si assiste così a una vera e propria «lutte des mystiques avec la langue» per usare una definizione di de Certau (FM, p. 158), in cui si tende a rompere le regole ordinarie forzando all’eccesso le strutture retoriche e sintattiche del discorso. Ma ciò entro un orizzonte che include il linguaggio normale. È in tale scontro fra eccesso retorico e parola quotidiana che il linguaggio dei mistici può rendere forme del tutto originali che scavalcano i generi e gli stili consolidati.

La componente amorosa insita nell’unione tra l’anima e Dio, su cui già Teresa d’Avila si era soffermata nei suoi scritti, diviene nella poesia di Giovanni della Croce elemento cardine per esplicare l’esperienza mistica. Il Cantico espiritual, opera concepita dal santo carmelitano durante la prigionia nel carcere di Toledo, è, del resto, una rilettura del Cantico dei Cantici, testo dell’Antico Testamento dal linguaggio fortemente erotico, che narra, com’è noto, in un susseguirsi di poemi non legati tra essi da alcun progresso di pensiero o azione, l’amore reciproco di un amato e di un’amata, il loro perdersi e il loro ricercarsi. Giovanni della Croce interpreta le vicende dei due amanti come la rappresentazione del cammino che l’anima deve intraprendere per ricongiungersi con il suo amato, ovvero Dio, dopo che quest’ultimo l’ha “ferita” con il suo amore.

Il santo spagnolo, seguendo, dunque, questo modello biblico, costruisce una lingua della passione, che vive di eccessi; l’argomento stesso, d’altra parte, esige un tale temperamento. Tale tendenza la si evince da alcuni elementi retorici ricorrenti nei suoi testi, come il paradosso, l’antitesi o l’uso insistito della metafora.

Jean Pierre Jossua, nel saggio Formes de langage de la mystique en poésie, osserva la ricorrenza di alcune ben definite forme retoriche nei componimenti dei mistici.

La prima ad essere analizzata è « la négation dans la métaphore »:


Pour dire l’ineffable de l’union, la poésie mystique recourt à la voie théologique de la négation. Soit par des métaphores négatives en elles-mêmes : nuit, nuée, nuage d’inconnaissance, absence, silence. Soit par des négations explicites, pour corriger les métaphores positives situées dans le plein du langage et usant de la puissance analogique de ses mots les plus beaux […] je vais insister sur les métaphores de l’obscurité (J, p.17).


Jossua ci mostra come le tenebre non rappresentino, nel sistema allegorico mistico, privazione ma, paradossalmente, un eccesso di luce aldilà di ogni immaginazione. A fare ampio uso della metafora della notte è proprio Giovanni della Croce, tanto da intitolare uno tra i suoi più celebri componimenti, La Noche oscura, di cui trascriverò la prima strofa:


En una noche oscura
Con ansias en amores inflamada
¡oh, dichosa ventura!
Salí sin ser notada,
Estando ya mi casa sosegada (GC, p. 438)

Giovanni della Croce, commentando la strofa, giustifica la metafora della notte senza alcuna luce affermando che la rinuncia è privazione: la fede, cammino dell’unione tra l’uomo e Dio, «est obscure comme la nuit pour l’entendement; parce que Dieu est une nuit obscure pour l’âme en cette vie (J, p. 19)».

È Il capitolo della “Visitation” quello in cui Jouve mette in scena, attraverso sette testi non più in prosa ma in versi liberi, la salita dell’anima di Paulina verso Dio, come Giovanni della Croce rappresenta questo cammino nella Subida del Monte Carmelo e nella Noche Oscura. Giunta sulla soglia dell’estasi mistica, Paulina deve apprendere il linguaggio adatto per, usando un’espressione di Ungaretti, “sciogliere il canto” del suo desiderio di assoluto: « Je sais à peine parler la langue de cet Espace. Comment me ferais-je comprendre? (P, p. 178)». Cuore poetico dell’opera, “Visitation” è, infatti, il capitolo in cui la protagonista, durante la sua presunta estasi, arricchisce il suo linguaggio di espressioni mistiche prese in prestito dal santo carmelitano:


Pendant que je souffrais ma prière montait très haut, peut-être se trouvait-elle au bord du monde Obscurité (P, p. 146).

Présence de Dieu qui est sans contours, sans forme, sans réalité, un immense ciel tout noir empli par lui jusqu’aux bords, une fontaine de ciel et de ciel qui va s’écouler jusque dans le petit fond sale de mon âme (P. p. 177).

Les mondes de la nuée brillent comme le diamant (P, p. 185).


La seconda forma retorica presa in esame da Jossua è l’ossimoro.

Lo studioso, per portare ulteriori prove alla sua tesi, si avvale, in questo caso, del contributo di Michel de Certeau sull’argomento:


Le langage mystique émane moins de vocables nouveaux que de transmissions opérées à l’intérieur de vocables empruntés au langage normal. Parmi ces usage insistants, l’oxymoron […] c’est un déictique : il montre ce qu’il ne dit pas. La combinaison des deux termes se substitue à l’existence d’un troisième et le pose comme absent. Elle crée un trou dans le langage. Elle y taille la place d’un indicible (FM, p. 196-9)


Giovanni della Croce, nella prima e seconda strofa di Llama de amor viva utilizza per ben tre volte la figura dell’ossimoro:


¡Oh llama de amor viva
Que tiernamente hieres![...]
¡Oh cauterio suave!
¡Oh regalada llaga! (GC, p. 248)

L’ossimoro può anche esprimere una bellezza superiore a qualunque altra di natura sensibile, come quando nel Cantico espiritual di Giovanni della Croce, l’anima descrive l’Amato (Dio) identificandolo con le magnificenze del creato e anche con un’armonia dalla bellezza ultraterrena e, in quanto tale, paragonabile soltanto al silenzio:


La noche sosegada
En par de los levantes de la aurora,
La música callada,
La soledad sonora,
La cena que recrea y enamora (GC, p.15)

Sempre al capitolo intitolato “Visitation”, troviamo forme ossimoriche contenenti anch’esse il concetto di silenzio quale voce del sovrumano:


O parole énorme éternelle on ne t’entend pas. Ma voix, ma gorge éclatante crient l’immense l’immense Gloria. Aucune sonorité (P, p. 185).


Nello stesso capitolo, sono presenti, anche, con una certa frequenza, espressioni ossimoriche prossime, per senso e valore, a quelle dal sapore sado-masochista delle prime strofe di Llama de amor viva di Giovanni della Croce; il cammino di perfezione intrapreso dall’eroina jouviana conduce a una «mort amoureuse (P, p. 177)», all’annientamento di sé necessario per poter “toccare Dio” e l’amore divino, di un'intensità e una grandezza intollerabile e incommensurabile per l’uomo, non può che spaventare: «Il était la Volonté Éternelle, il pouvait nous terroriser d’amour nous accabler de haine et d’amour (P, p. 182)».

Il terzo ed ultimo elemento che caratterizza la scrittura mistica secondo Jean-Pierre Jossua, è la presenza di quelle che lo studioso definisce «images liminaires»:


Celles-ci ne sont jamais des figures directes de l’Absolu mais du sujet qui y tend, à la différence des précédentes qui oscillent entre le Mystère et l’expérience unitive, également ineffables. Elles ne renvoient à ce vers quoi elles s’orientent que par le détour d’une expression métaphorique de l’attitude ou de la position du croyant ou de l’orant, et comme en creux : il attend, il veille, il guette (liminaire temporel) ; il est placé sur un seuil ou devant une porte, sur une frontière, des confins, une rive, un voile, ou encore prend un départ, se livre à une ascension, une plongée (liminaire spatial) (J, p. 26)


Constatiamo come anche il linguaggio “mistico” di suora Blandine contenga immagini di ordine spaziale prossime alle “images liminaires”; il paragrafo 84 si chiude con un lapidario e allo stesso tempo misterioso «on s’avance (P, p. 180)» che lascia la rotta dell’ipotetico viaggio e la meta del tutto indefiniti; al paragrafo 90, invece, Paulina afferma d’ « [avoir] gravi, gravi l’échelon pendant des éternités avant d’arriver (P, p. 186)».


La fanciulla italiana che aprirà la strada a tutte le altre enigmatiche figure femminili che popolano le opere romanzesche di Jouve, dalla Catherine Crachat di Hécate e Vagadu all’ Hélene di Dans les années profondes, sembra incarnare la perfetta sintesi dei due santi carmelitani; di Teresa rispecchia soprattutto la vita, sia quella precedente all’entrata al convento, trascorsa all’ombra di una figura paterna ingombrante, tra vanità e dubbi sulla propria vocazione, sia quella all’interno, caratterizzata dall’immagine di peccatrice redenta dipinta dalla stessa Teresa nella sua opera più autobiografica, Libro de mi vida. Così la santa spagnola offre al poeta-romanziere la fonte di ispirazione per rappresentare un’anima, quella di Paulina, segnata dall’ossessione del peccato.

Di Giovanni della Croce Paulina assorbe, invece, soprattutto il verso, il canto capace di esprimere l’indicibile bellezza dell’ultraterreno; se le analogie tra Paulina e Teresa si evincono lungo tutta la narrazione, il rapporto con Giovanni della Croce si manifesta esclusivamente nel capitolo della “Visitation”. Jouve, dunque, presta a Paulina il linguaggio del silenzio tratto dalla teologia negativa di Giovanni della Croce, quasi a voler donare maggior autenticità all’esperienza personale della protagonista attraverso l’autorevolezza di un verso che meglio di ogni altro ha saputo raccontare ciò che non può essere detto.



LEGENDA

 

O Pierre Jean Jouve, Œuvre II, Paris, Mercure de France, 1987.

T Teresa d’Avila, Obras completas, Madrid, 1948

TV Teresa d’Avila, Libro de su vida, Leipzig, 1921

GC Giovanni della Croce, Obras completas, Madrid, 1993

FM Michel de Certeau, La Fable Mystique, Gallimard, Paris, 1982

B Béatrice Bonhomme, Pierre Jean Jouve, La quête intérieure, Croissy-Beaubourg, éditions Aden, 2008

P Pierre Jean Jouve, Paulina 1880, Paris, (Mercure de France, 1959), collection Folio, 1974

M Pierre Jean Jouve, En Miroir, Paris, Mercure de France, 1954

J Jean-Pierre Jossua, « Formes de langages de la mystique en poésie » in Poésie et Mystique, a cura di Paule Plouvier, Paris, L'Harmattan, 1995



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Ce texte © Massimo Cotugno

Dernière mise à jour : le 19 décembre 2010

Première mise en ligne : le 16 décembre 2010

Texte reçu le 14 décembre 2010

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