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Lectures de
Pierre Jean Jouve
Jeunes
Chercheurs
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Massimo Cotugno
2010
Pierre
Jean Jouve, Teresa d'Avila e Giovanni della Croce:
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Influenze, richiami, prestiti
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L’influenza
dei testi mistici sull’opera di Jouve è ben nota. Raramente, però,
ci si è soffermati ad analizzare la fitta trama di rapporti
intertestuali, dai prestiti alle influenze, nella sua struttura e
composizione. Quest’indagine, se condotta, permette di meglio
illuminare la complessità e la ricchezza del modus narrandi
di Jouve, chiarendo se il debito nei confronti dei mistici sia solo
di natura tematica o anche stilistico-retorica.
Ricercare
nel testo del capolavoro jouviano, Paulina 1880, le tracce e i
sedimenti dell’insegnamento mistico, in particolare quello lasciato
da Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, può rappresentare
un’operazione valida al fine di dare una risposta al nostro
quesito.
Trattandosi
di Paulina 1880, l’indagine non può che ruotare attorno
alla figura della protagonista, la Paulina che dà il titolo
all’opera, vero e proprio alterego romanzesco di Pierre Jean Jouve,
in cui l’autore riversa le proprie ansie e tensioni metafisiche.
L’epigrafe che apre il romanzo, estratto dalle Esclamaciones di
Teresa d’Avila, fondatrice dell’ordine delle carmelitane scalze,
preannuncia la presenza della santa nel tessuto dell’opera e
anticipa uno dei temi principali del romanzo, l’eros e la sua
tensione ultraterrena:
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L’amour
est dur et inflexible comme l’enfer (O, p.3)
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Il
verso teresiano riassume in sé, infatti, la tematica dell’unione
amorosa con Dio, e del durissimo cammino per raggiungere tale stato,
tra prove estenuanti e sofferenze inaudite, sia spirituali sia
fisiche.
D’altra
parte, osservando l’impianto generale del romanzo, si scorge,
celata nel tessuto romanzesco, una struttura più profonda: quella di
un cammino rituale, un percorso che prevede la comprensione delle
proprie colpe, il distacco da tutti i legami terreni e il
raggiungimento di quella condizione spirituale già descritta da
Giovanni della Croce in componimenti quali la Noce Oscura o la
Subida del Monte Carmelo e che consiste
nell’annientamento di sé per accogliere il divino: il Nada.
Jouve sceglie un modello di santità mistica su cui ricalcare le
gesta della sua eroina e creare una sorta di “scandalosa”
agiografia; la vita di Teresa d’Avila offre allo scrittore gli
elementi di cui aveva bisogno; uno degli aspetti, infatti, delle
opere scritte dalla santa carmelitana che devono aver attratto Jouve
è l’aver delineato la figura di una peccatrice redenta, di una
donna che segue tardivamente la via del Signore, dopo essersi, in un
primo momento, abbandonata ai piaceri mondani. La consapevolezza del
peccato e la lucida analisi della propria colpa sono condizioni
imprescindibili per porsi di fronte al divino, concezione, questa,
vicina, secondo Béatrice Bonhomme, all’insegnamento di Kierkegaard
(B. Bonhomme, Pierre Jean Jouve la quête intérieure, pp.
402-403).
L’analogia
più evidente tra Paulina e Teresa consiste nell’essere entrambe
severe giudici di sé stesse; entrambe si considerano grandi
peccatrici e lo ribadiscono continuamente, accusandosi persino di
colpe inesistenti. È in particolare nel testo del Libro de mi
vida, sorta di autobiografia teresiana, che troviamo con
insistenza il tema del peccato, come già osservato dalla Bonhomme:
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Tout le texte
est jalonné de termes comme “vie coupable, souillure, péché”.
Péchés, d’après le père Tomas Alvarez [il confessore
di Teresa] bien plus imaginaires que réels (B. p. 281)
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Paulina,
del resto, sembra possedere, fin dall’infanzia, una visione
estremamente personale dell’esistenza e della colpa ad essa
inevitabilmente connaturata. Il narratore,
infatti, ci informa che “elle avait naturellement la notion du
péché, et vivre même lui semblait inséparable d’une certaine
faute obscure et capitale (O, p. 19)”. La protagonista
stessa si autodefinisce « pécheresse (O, p.
33) » e si considera « impure, méchante, perverse
(O, p. 49)» facendo della colpa una costante della sua vita.
Più
ci si inoltra nella narrazione, più affiorano le analogie tra le due
figure femminili; entrambe vissute all’ombra di un padre amorevole,
ma anche severo e iperprotettivo, esse cercano una via di fuga da un
mondo asfittico, sviluppando una fervida immaginazione in grado di
compensare la mancanza di una vera cultura, appannaggio questa ancora
esclusivamente dei maschi. Per quanto riguarda Teresa, siamo di
fronte a un vero e proprio complesso da illetterata che la santa
spagnola sottolinea più volte nei suoi testi, come nel capitolo X
della sua autobiografia: «Bastan personas tan
letradas y graves para autorizar alguna cosa buena, si el Señor me
diere gracia para decirla; que, si lo fuere, será suya y no mia, por
ser yo sin letras y buena vida, ni ser informada de letrado ni de
persona ninguna (T, pp. 52-53)».
Allo
stesso modo, osserviamo come il narratore in Paulina 1880
sottolinei l’estraneità della protagonista al campo delle arti
proprio in un passo in cui si descrive la passione della fanciulla
per le immagini raffiguranti i martiiri:
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A San Maurizio,
il y avait le martyre de sainte Catherine et celui de saint Maurice,
mais dans mainte autre
petite église cachée parmi les quartiers populeux, ce n’étaient
que bruit de sanglots, égouttement de sang, agonie, et béatitude
enfin sur le visage du Saint. Paulina
ne savait pas ce qu’était la peinture et elle ne lisait jamais de
poésie (P. p.29)
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Ad
alimentare le fantasie delle due donne sono produzioni artistiche con
cui vengono casualmente a contatto senza l’ausilio di alcuna figura
mediatrice che possa loro interpretarle e indicarne il valore; Teresa
e Paulina sono costrette, dunque, ad affidarsi esclusivamente alla
loro sensibilità e intelligenza, doti che entrambe sembrano
possedere in gran quantità. Se nel caso di Paulina le opere in
questione riguardano soprattutto l’arte figurativa
tardo-rinascimentale di cui sono ricche le chiese milanesi, per
Teresa si tratta, invece, di opere letterarie come il flos
sanctorum, libro di leggende e gesta eroiche che evocano i
tormenti di numerosi santi. In entrambi i casi si tratta, comunque,
di storie di martiri e il contatto con queste narrazioni avviene già
nella prima adolescenza, un periodo che sia per Teresa sia per
Paulina rappresenta un momento di grandi mutamenti spirituali. Il
conflitto con la figura paterna (aggravato da una sfumatura
incestuosa), che resta latente nella storia di Paulina – « cet
homme gras et blême était son père. Elle
ressentait de l’effroi et du désir. Mais oui, et elle l’aimait.
Non, elle ne l’aimait pas. Elle méfiait. Se méfier de toi, papa,
mais cela est impossible et de plus, c’est criminel ! (P,
p. 52.)» è scontro diretto in Teresa, manifesto quando sceglie di
abbracciare la vita monacale, sfidando le ire di don Alonso.
Ciò
che più accomuna la santa e la fanciulla milanese è, però, il
tragico dilemma tra mondo e Dio, vita e annientamento di sé. Non è
un caso che, tra i peccati, quello ad essere messo in luce sia per
entrambe la vanità; nel secondo capitolo della sua autobiografia,
Teresa d’Avila descrive i propri errori di gioventù, peccati
veniali che assumono, agli occhi dell’autrice, una gravità
pressoché mortale. Tra questi la cura eccessiva del corpo al fine di
apparire bella agli occhi di chi l’ammirasse, occupa un posto
rilevante:
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Comencé á
traer galas, y á desear contentar en parecer bien, con mucho cuidado
de manos y cabellos y olores, y todas las vanidades que en esto podía
tener, que eran hartas, por ser muy curiosa [...] Duróme mucha
curiosidad de limpieza demasiada, y cosas que me parecía á mí no
eran ningún pecado muchos años; ahora veo cuán malo debía ser
(T,
p. 11)
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La
stessa vanità si riscontra nella giovane Paulina a un’ora
dall’inizio del ballo dei Lanciani, dove la fanciulla farà il suo
ingresso ufficiale in società. La protagonista, in procinto di
passare definitivamente all’età adulta, è sempre più consapevole
della sua bellezza e del fascino che esercita su chi le sta attorno.
Combattuta fra castità e desiderio di esperire le gioie e i piaceri
del mondo, Paulina si ammira di fronte allo specchio, elogiando la
propria figura, quasi fosse di fronte a un potente idolo da venerare:
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Sia
in Paulina sia in Teresa è in atto un conflitto interiore generato
da istanze di natura opposta, quella fisico-sensuale e quella
spirituale; entrambe le donne tentano di trovare un misterioso legame
che possa tenere unite le due realtà apparentemente inconciliabili.
Leggiamo così, nel Libro de la vida, un’alquanto originale
confessione della santa sui suoi anni di gioventù:
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Pasaba una vida
trabajosísima, porque en la oración entendía más mis faltas. Por
una parte me llamaba Dios, por otra yo seguía el mundo. Dábame gran
contento todas las cosas de Dios; teníanme atada las del mundo.
Parece que quería concertar estos dos contrarios, tan enemigo uno de
otro, como es vida espiritual, y contentos, y gustos
y pasatiempos sensuales (T, p. 47).
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Evidente
ed estremamente significativa è la
somiglianza con quanto il narratore afferma al paragrafo 38, là dove
ricorda che Paulina : «voulait ardemment revenir à Dieu ;
mais elle ne pouvait rien renoncer de sa passion qui la possédait
avec une égale ardeur (P,
p. 92)» ancor più quando
ricorda: « La vie [...] double et partagée. Il
y avait son sensuel amour et il y avait Dieu. Elle ne voulait rien
renoncer, ni de l’un ni de l’autre (P,
p. 114)».
Attanagliate
da dubbi e desiderose di una guida spirituale in grado di correggere
gli slanci di una fede bruciante, istintiva e “pericolosa”,
Paulina e Teresa si affidano a figure quali i confessori per
sciogliere i continui dubbi sulla correttezza delle loro azioni e
sulla giusta via da intraprendere. Questa particolare figura è,
d’altronde, l’unico vero “intruso” che le due donne tollerano
nell’intimo dialogo tra loro e Dio. Per questo motivo, esse
instaurano un legame profondo con i rispettivi confessori, descritti
come personaggi enigmatici, capaci essi solamente di sondare le loro
anime, grazie a un carisma che al tempo stesso affascina e inquieta
le due donne:
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Au père Bubbo
je l’ai dit: pourquoi ne serais-je pas un Ange ? Sans corps,
sans douleurs, sans désirs, à force d’exercer et d’endurcir
mon esprit ? Il a souri. Il est si bon. Non, c’est un vieux
sorcier. (P, p. 33)
Tenía yo un
confesor que me mortificaba mucho, y algunas veces me afligía y daba
gran trabajo, porque me inquietaba mucho, y era el que más me
aprovechó, á lo que me parece: y aunque le tenía mucho amor, tenía
algunas tentaciones por dejarle, y parecíame me estorbaban aquellas
penas que me daba, de la oración. Cada vez que estaba determinada á
esto, entendía luego que no lo hiciese, y una reprensión, que me
deshacía más que cuanto el confesor hacía: algunas veces me
fatigaba, cuestión pou un cabo y reprensión por otro; y tobo lo
había menester, según tenía poco doblada la voluntad. Díjome una
vez que no era obedecer, si no estaba determinada á padecer; que
pusiese los ojos en lo que él había padecido,
y todo se me haría fácil. (T, p. 163)
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Ma
la “parentela” tra il personaggio jouviano e la mistica spagnola
va ben oltre la biografia e la caratterizzazione del personaggio
ispirate dalla figura di Teresa d’Avila; il legame è ben più
profondo e tocca persino il linguaggio della protagonista, quel suo
modo inedito di pregare e lodare Dio che ci riconduce, questa volta,
agli infiammati versi di Giovanni della Croce. È nel capitolo
intitolato “Visitation” che Jouve decide di mettere in
bocca al suo personaggio principale un linguaggio altamente
metaforico e visionario in grado di descrivere l’esperienza che,
per sua natura, è indicibile: l’esperienza mistica. Il termine
latino “mysticus”, derivato dal greco “μυστικός”,
significa, infatti, “misterioso”, “arcano”; entrambe le
parole hanno come origine il verbo greco “mυειν” ovvero
“chiudere”, “tacere”.
La
difficoltà di tradurre in concetti razionali l’esperienza mistica
è dovuta alla natura dell’oggetto stesso del discorso: come
esprimere con parole finite un’esperienza infinita? Il linguaggio
umano, al cospetto del divino, perde qualunque efficacia.
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Se
dunque Dio non può essere descritto attraverso i consueti schemi
linguistici, la parola verrà deformata, rigenerata, portata
all’estremo delle sue possibilità, ottenendo inedite “alchimie”
capaci di alludere al divino; è questa la strada intrapresa da
Giovanni della Croce, il mistico che forse ha più influenzato la
scrittura jouviana sia dal punto di vista tematico sia da quello
stilistico.
Benché
Jouve abbia affrontato diverse traduzioni da testi mistici, come la
poesia di Santa Teresa tradotta nel ’39 (Je
meurs de ne pas mourir (O,
p. 2045) o il Cantico delle creature (O,
p. 1885) apparso per la prima volta in chiusura della
raccolta di poesie Les Noces nel 1926, di fronte al testo del
carmelitano scalzo dichiara l’impossibilità di una traduzione:«
Un peu plus tard je m’approchai avec respect de Jean de la Croix,
qui ne se peut traduire (M, p.
32)».
Restituire,
infatti, la musicalità e l’intensità del verso spagnolo di
un’opera come il Cantico Espiritual o La Noche Oscura
in una qualsiasi altra lingua risulta essere un’impresa ardua se
non impossibile per qualunque traduttore. Più che il castigliano, è
lo “sguardo mistico” di Giovanni della Croce a creare una nuova
lingua, un Verbo delle origini, che recupera la funzione performativa
del canto liturgico, obbiettivo che si propone di raggiungere lo
stesso Jouve con la sua poesia, concepita nella sua accezione più
antica:
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Poésie, art de
«faire». Selon cette définition qui remonte à la science des
Anciens, la Poésie tient sous son influence, par rayons droits ou
obliques, tous les autres arts de l’homme. Faire veut dire :
enfanter, donner l’être, produire ce qui, antérieurement à
l’acte, n’était pas (O,
p. 1055).
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Il
mistico si getta contro i limiti del linguaggio e, se da un lato
ritiene qualunque traduzione in parole della propria esperienza
intraducibile, dall’altra attinge a tutto ciò che può aiutarlo a
tradurla. Interpretare il divino è possibile solo a patto di
esprimerlo con parole, ma il linguaggio corrente è debole e allora
occorre attingere a tutte le lingue e a tutte le tradizioni che
rigenerino quelle parole, diano loro un conio nuovo.
Si
assiste così a una vera e propria «lutte des mystiques avec la
langue» per usare una definizione di de Certau (FM, p. 158), in cui
si tende a rompere le regole ordinarie forzando all’eccesso le
strutture retoriche e sintattiche del discorso. Ma ciò entro un
orizzonte che include il linguaggio normale. È in tale scontro fra
eccesso retorico e parola quotidiana che il linguaggio dei mistici
può rendere forme del tutto originali che scavalcano i generi e gli
stili consolidati.
La
componente amorosa insita nell’unione tra l’anima e Dio, su cui
già Teresa d’Avila si era soffermata nei suoi scritti, diviene
nella poesia di Giovanni della Croce elemento cardine per esplicare
l’esperienza mistica. Il Cantico espiritual, opera concepita
dal santo carmelitano durante la prigionia nel carcere di Toledo, è,
del resto, una rilettura del Cantico dei Cantici, testo
dell’Antico Testamento dal linguaggio fortemente erotico, che
narra, com’è noto, in un susseguirsi di poemi non legati tra essi
da alcun progresso di pensiero o azione, l’amore reciproco di un
amato e di un’amata, il loro perdersi e il loro ricercarsi.
Giovanni della Croce interpreta le vicende dei due amanti come la
rappresentazione del cammino che l’anima deve intraprendere per
ricongiungersi con il suo amato, ovvero Dio, dopo che quest’ultimo
l’ha “ferita” con il suo amore.
Il
santo spagnolo, seguendo, dunque, questo modello biblico, costruisce
una lingua della passione, che vive di eccessi; l’argomento stesso,
d’altra parte, esige un tale temperamento. Tale tendenza la si
evince da alcuni elementi retorici ricorrenti nei suoi testi, come il
paradosso, l’antitesi o l’uso insistito della metafora.
Jean
Pierre Jossua, nel saggio Formes de langage de la mystique en
poésie, osserva la ricorrenza di alcune ben definite forme
retoriche nei componimenti dei mistici.
La
prima ad essere analizzata è « la négation dans la
métaphore »:
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Pour dire
l’ineffable de l’union, la poésie mystique recourt à la voie
théologique de la négation. Soit par des métaphores négatives en
elles-mêmes : nuit, nuée, nuage d’inconnaissance, absence,
silence. Soit par des négations explicites, pour corriger les
métaphores positives situées dans le plein du langage et usant de
la puissance analogique de ses mots les plus beaux […] je vais
insister sur les métaphores de l’obscurité
(J, p.17).
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Jossua
ci mostra come le tenebre non rappresentino, nel sistema allegorico
mistico, privazione ma, paradossalmente, un eccesso di luce aldilà
di ogni immaginazione. A fare ampio uso della metafora della notte è
proprio Giovanni della Croce, tanto da intitolare uno tra i suoi più
celebri componimenti, La Noche oscura, di cui trascriverò la
prima strofa:
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En una noche oscura
Con ansias en
amores inflamada
¡oh, dichosa ventura!
Salí sin ser notada,
Estando ya mi
casa sosegada (GC, p. 438)
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Giovanni
della Croce, commentando la strofa, giustifica la metafora della
notte senza alcuna luce affermando che la rinuncia è privazione: la
fede, cammino dell’unione tra l’uomo e Dio, «est obscure
comme la nuit pour l’entendement; parce que Dieu est une nuit
obscure pour l’âme en cette vie (J, p. 19)».
È
Il capitolo della “Visitation” quello in cui Jouve mette in
scena, attraverso sette testi non più in prosa ma in versi liberi,
la salita dell’anima di Paulina verso Dio, come Giovanni della
Croce rappresenta questo cammino nella Subida del Monte Carmelo e
nella Noche Oscura. Giunta sulla soglia dell’estasi mistica,
Paulina deve apprendere il linguaggio adatto per, usando
un’espressione di Ungaretti, “sciogliere il canto” del suo
desiderio di assoluto: « Je sais à peine parler
la langue de cet Espace. Comment me ferais-je comprendre? (P,
p. 178)». Cuore poetico dell’opera, “Visitation” è, infatti,
il capitolo in cui la protagonista, durante la sua presunta estasi,
arricchisce il suo linguaggio di espressioni mistiche prese in
prestito dal santo carmelitano:
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Pendant que je
souffrais ma prière montait très haut, peut-être se trouvait-elle
au bord du monde
Obscurité (P, p.
146).
Présence de
Dieu qui est sans contours, sans
forme, sans
réalité, un immense ciel
tout noir empli par
lui jusqu’aux bords, une fontaine de ciel et de ciel qui va
s’écouler jusque dans le petit fond sale de mon âme (P. p. 177).
Les mondes
de la nuée
brillent comme le diamant (P, p. 185).
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La
seconda forma retorica presa in esame da Jossua è l’ossimoro.
Lo
studioso, per portare ulteriori prove alla sua tesi, si avvale, in
questo caso, del contributo di Michel de Certeau sull’argomento:
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Le langage
mystique émane moins de vocables nouveaux que de transmissions
opérées à l’intérieur de vocables empruntés au langage
normal. Parmi ces usage insistants, l’oxymoron […] c’est un
déictique : il montre ce qu’il ne dit pas. La combinaison des
deux termes se substitue à l’existence d’un troisième et le
pose comme absent. Elle crée un trou dans le langage. Elle y taille
la place d’un indicible (FM, p. 196-9)
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Giovanni
della Croce, nella prima e seconda strofa di Llama de amor viva
utilizza per ben tre volte la figura dell’ossimoro:
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¡Oh llama de amor viva
Que tiernamente hieres![...]
¡Oh cauterio suave!
¡Oh regalada llaga! (GC, p. 248)
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L’ossimoro può anche esprimere una bellezza
superiore a qualunque altra di natura sensibile, come quando nel
Cantico espiritual di Giovanni della Croce, l’anima descrive
l’Amato (Dio) identificandolo con le magnificenze del creato e
anche con un’armonia dalla bellezza ultraterrena e, in quanto tale,
paragonabile soltanto al silenzio:
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La noche sosegada
En par de los levantes de la
aurora,
La música callada,
La soledad sonora,
La cena que
recrea y enamora (GC, p.15)
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Sempre
al capitolo intitolato “Visitation”, troviamo forme ossimoriche
contenenti anch’esse il concetto di silenzio quale voce del
sovrumano:
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O parole énorme
éternelle on ne t’entend pas. Ma voix, ma gorge éclatante crient
l’immense l’immense
Gloria. Aucune sonorité (P, p. 185).
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Nello
stesso capitolo, sono presenti, anche, con una certa frequenza,
espressioni ossimoriche prossime, per senso e valore, a quelle dal
sapore sado-masochista delle prime strofe di Llama de amor viva
di Giovanni della Croce; il cammino di perfezione intrapreso
dall’eroina jouviana conduce a una «mort amoureuse (P, p. 177)»,
all’annientamento di sé necessario per poter “toccare Dio” e
l’amore divino, di un'intensità e una grandezza intollerabile e
incommensurabile per l’uomo, non può che spaventare: «Il était
la Volonté Éternelle, il pouvait nous terroriser
d’amour nous accabler de haine et d’amour (P, p. 182)».
Il
terzo ed ultimo elemento che caratterizza la scrittura mistica
secondo Jean-Pierre Jossua, è la presenza di quelle che lo studioso
definisce «images liminaires»:
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Celles-ci ne
sont jamais des figures directes de l’Absolu mais du sujet qui y
tend, à la différence des précédentes qui oscillent entre le
Mystère et l’expérience unitive, également ineffables. Elles ne
renvoient à ce vers quoi elles s’orientent que par le détour
d’une expression métaphorique de l’attitude ou de la position du
croyant ou de l’orant, et comme en creux : il attend, il
veille, il guette (liminaire temporel) ; il est placé sur un
seuil ou devant une porte, sur une frontière,
des confins, une rive, un voile, ou encore prend un départ, se livre
à une ascension, une plongée (liminaire spatial) (J, p. 26)
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Constatiamo
come anche il linguaggio “mistico” di suora Blandine contenga
immagini di ordine spaziale prossime alle “images
liminaires”; il paragrafo 84 si chiude con un lapidario e
allo stesso tempo misterioso «on s’avance (P, p. 180)» che lascia
la rotta dell’ipotetico viaggio e la meta del tutto indefiniti; al
paragrafo 90, invece, Paulina afferma d’ « [avoir]
gravi, gravi l’échelon pendant des éternités avant d’arriver
(P, p. 186)».
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La
fanciulla italiana che aprirà la strada a tutte le altre enigmatiche
figure femminili che popolano le opere romanzesche di Jouve, dalla
Catherine Crachat di Hécate e Vagadu all’ Hélene di
Dans les années profondes, sembra incarnare la perfetta
sintesi dei due santi carmelitani; di Teresa rispecchia soprattutto
la vita, sia quella precedente all’entrata al convento, trascorsa
all’ombra di una figura paterna ingombrante, tra vanità e dubbi
sulla propria vocazione, sia quella all’interno, caratterizzata
dall’immagine di peccatrice redenta dipinta dalla stessa Teresa
nella sua opera più autobiografica, Libro de mi vida. Così
la santa spagnola offre al poeta-romanziere la fonte di ispirazione
per rappresentare un’anima, quella di Paulina, segnata
dall’ossessione del peccato.
Di
Giovanni della Croce Paulina assorbe, invece, soprattutto il verso,
il canto capace di esprimere l’indicibile bellezza
dell’ultraterreno; se le analogie tra Paulina e Teresa si evincono
lungo tutta la narrazione, il rapporto con Giovanni della Croce si
manifesta esclusivamente nel capitolo della “Visitation”. Jouve,
dunque, presta a Paulina il linguaggio del silenzio tratto dalla
teologia negativa di Giovanni della Croce, quasi a voler donare
maggior autenticità all’esperienza personale della protagonista
attraverso l’autorevolezza di un verso che meglio di ogni altro ha
saputo raccontare ciò che non può essere detto.
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LEGENDA
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O
Pierre Jean Jouve, Œuvre
II,
Paris, Mercure de France, 1987.
T
Teresa
d’Avila, Obras
completas,
Madrid, 1948
TV
Teresa d’Avila, Libro
de su vida,
Leipzig, 1921
GC
Giovanni della Croce, Obras
completas, Madrid,
1993
FM
Michel
de Certeau,
La
Fable Mystique,
Gallimard, Paris, 1982
B
Béatrice Bonhomme, Pierre
Jean Jouve, La quête intérieure,
Croissy-Beaubourg, éditions Aden, 2008
P
Pierre
Jean Jouve,
Paulina
1880,
Paris, (Mercure de France, 1959), collection Folio, 1974
M
Pierre
Jean
Jouve, En
Miroir,
Paris, Mercure de France, 1954
J
Jean-Pierre
Jossua, « Formes de langages de la mystique en poésie » in
Poésie
et Mystique,
a cura di Paule Plouvier, Paris, L'Harmattan, 1995
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Ce texte © Massimo Cotugno
Dernière mise à jour : le 19 décembre
2010
Première mise en ligne : le 16 décembre 2010
Texte reçu le 14 décembre 2010
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